Questo post è dedicato a mio padre, appassionato escursionista e innamorato della montagna, a un anno dalla morte
Per tutti quelli che abitano il Belpaese la montagna è parte integrante del paesaggio, e spesso è essa stessa il paesaggio. Nell’immaginario collettivo dei nostri avi italici, sia che vivessero nella pianura padana da cui si può ammirare la maestosità dell’arco alpino (visione oggi spesso oscurata dalla cappa di smog), sia che abitassero giù lungo lo Stivale fino alle isole, le vette dei monti rappresentavano la frontiera, un po’ come il far-west dei film americani anni ’60, anche se più a portata di mano. Oggi che gli spostamenti sono resi facili dall’asfalto e dai motori a scoppio (derivato del petrolio il primo, azionati dal petrolio i secondi), quella frontiera è stata raggiunta e oltrepassata più e più volte.
Con l’urbanizzazione e la cementificazione di tutto il territorio urbanizzabile e cementificabile, le nostre montagne (quelle vere con le cime rocciose, non quelle levigate dal vento e arrotondate dalle ere geologiche che si incontrano p.es. nell’Europa settentrionale) sono rimaste il luogo per eccellenza della residua natura selvaggia e incorrotta, il luogo nel quale chi vi si immerge anche solo per poche ore non può non sentirsi in pace con il mondo, pervaso da un sentimento profondo di empatia verso il creato e le creature che lo popolano. Chi ama la montagna non può non innamorarsi della natura, e chi ama la natura non può non provare stupore autentico di fronte alla bellezza, alla varietà degli ambienti e delle specie viventi, alla quiete ovattata che solo la montagna sa offrire.
La mia viscerale passione per l’ambiente si rese manifesta per la prima volta in un preciso momento della mia vita, quando da ragazzino, camminando con mio padre per un sentiero immerso nella fitta faggeta del Parco Nazionale d’Abruzzo, improvvisamente fui preso da una infinita commozione di fronte a tanta bellezza, e piansi in silenzio. Non ho mai capito se mio padre se ne accorse, ma mi piace pensare che con la coda dell’occhio mi vide, capì e ebbe la delicatezza di voler condividere il mio stato d’animo facendo finta di nulla, per non rovinare quel personalissimo momento magico adolescenziale. Da allora ho sempre amato la montagna, e ho provato rabbia e indignazione verso i numerosi tentativi, troppo spesso andati a buon fine, di manomissione e sfruttamento delle zone montane, che specialmente negli anni ’70 e ’80 dello sviluppo a tutti i costi venivano perpetrati a ogni piè sospinto da amministratori locali senza scrupoli di ogni colore politico. Erano gli anni in cui si costruivano strade carrabili che portavano masse di gente fin sulle cime dei monti, si realizzavano impianti di risalita per gli amanti dello sci, si spogliavano interi versanti radendo al suolo boschi e si cancellavano dalle carte geografiche vette di massicci montuosi unici al mondo come le Alpi Apuane.
E oggi? Nonostante ci si sciacqui quotidianamente la bocca con la parola “sostenibilità”, la montagna continua da molti ad essere vista per lo più come un parco di divertimenti, fatto di eliski e motoslitte, di rumori ed effetti speciali, buono magari per un reality show nostrano con i vip portati fin sulle vette più alte con l’elicottero. E’ questa idea di montagna ad aver alimentato il turismo invernale usa-e-getta, che si pone in una contrapposizione quasi ideologica con il turismo ‘dolce’ praticato tutto l’anno, basato sull’escursionismo e sull’osservazione della fauna selvatica (dalla mia personale esperienza, si tratta di due mondi pressoché del tutto estranei l’un l’altro: chi ama il trekking non va a sciare e viceversa).
Ma le cose stanno cambiando rapidamente, perché il bel mondo dei ricconi che frequentano abitualmente Cortina, Bardonecchia o Zermatt è mai come ora alle prese con le imbarazzanti conseguenze di un fenomeno che questa gente ha sempre esorcizzato con una scrollata di spalle, convinta come è fino al midollo delle magnifiche sorti e progressive dell’umanità. Sto parlando naturalmente dei cambiamenti climatici e del loro impatto sugli ambienti montani, con l’innevamento di quesa stagione ai minimi dopo un autunno mite e asciutto come pochi e una primavera in anticipo di due mesi. In molte stazioni sciistiche neanche i cannoni sparaneve azionati a pieno regime hanno potuto creare condizioni accettabili per praticare gli sport invernali, evidenziando una volta di più l’insostenibilità di questa pratica.
Il problema è serio e destinato purtroppo ad aggravarsi. Le Alpi, come tutte le più importanti catene montuose, sono più vulnerabili di altri ambienti ai cambiamenti climatici. Il drammatico e inesorabile arretramento dei ghiacciai, che prosegue da diversi decenni, si accompagna ad una sensibile riduzione complessiva dell’innevamento invernale sia in durata che in quantità, specie alle altitudini meno elevate. Secondo i modelli elaborati dall’Ufficio federale svizzero di meteorologia e climatologia, estrapolando gli attuali trend, alle quote più basse sono da attendersi riduzioni del 50% della coltre nevosa già alla metà del secolo, mentre al 2100 potrà aversi una durata dell’innevamento di 2-3 mesi più corta rispetto ad oggi. Inutile dire che in queste condizioni il turismo invernale così come lo conosciamo oggi sarà allora solo un ricordo (o piuttosto, sarà forse l’idea stessa di turismo di massa ad essere accantonata da comunità probabilmente alle prese con problemi ben più impellenti). Ma sarà soprattutto il rifornimento idrico delle popolazioni delle pianure a risentirne drammaticamente: le Alpi, da sempre considerate “la torre dell’acqua” d’Europa, potrebbero presto non essere più in grado di soddisfare gli ingenti fabbisogni idrici delle genti padane e dell’imponente apparato agro-industriale delle regioni più ricche d’Italia. La stessa cosa potrà avvenire lungo l’Appennino e nelle isole, che già sperimentano la siccità, laddove a peggiorare le cose ci sono le condizioni scadenti della rete idrica e le inefficienze della gestione.
Ma non è finita: l’aumento delle temperature, la maggiore intensità degli eventi metereologici estremi e i frequenti sbalzi repentini delle condizioni meteo ad alta quota, manifestazioni già note del riscaldamento globale, accentueranno la destabilizzazione dei pendii e delle coltri nevose, generando slavine, valanghe, crolli e smottamenti franosi, mettendo così a rischio la vita della gente di montagna, le loro case e le attività economiche.
Ci sono molte ragioni per amare la montagna e molte buone ragioni per preoccuparsi delle condizioni in cui versa. Il grido di dolore delle montagne stuprate, denudate, inaridite e franate sarà il nostro stesso grido se non sapremo mettere mano al disastro globale che si appalesa sempre più evidente ai nostri occhi.
P.S. Sono grato a Claudio de Grazia per le preziose informazioni condivise e per la sua costante opera di sensibilizzazione sui problemi delle montagne italiane.